Quando tutto finì,
tornò a casa: le feci trovare tutto pulito e stirato, il letto
pronto, il frigo pieno. Ci guardavamo senza parlare: a che
serviva dire qualcosa? Quello che volevamo dirci traspariva dai
nostri sguardi, e il luccichio tradiva tutte le emozioni che
provavamo.
Naturalmente non era
tutto finito: il Dr. Bregni ci comunicò, al momento delle
dimissioni dall’ospedale, quale comportamento dovevamo seguire.
Ogni 15 giorni doveva eseguire un esame del sangue, completo di
formula leucocitaria, e ogni mese per i primi tre mesi avrebbe
dovuto eseguire una TAC.
Ovviamente ci
attenemmo scrupolosamente a queste istruzioni; passati i primi
tre mesi senza variazioni, ci venne comunicato che il controllo
poteva essere gradatamente rallentato: una volta ogni tre mesi,
poi ogni sei mesi. Ma si doveva proseguire per cinque anni,
perché solo dopo cinque anni – se non fosse successo nulla – si
sarebbe potuto affermare che la malattia era regredita, se non
vinta.
Intanto erano successe
altre cose: a febbraio 2002 avevo perso mio padre, a marzo 2003
mia madre….
Arrivò Natale: non ci
sembrava vero essere insieme, riassaporare quelle sensazioni che
solo Natale riesce a dare, quando la famiglia si ritrova tutta
unita per quella giornata speciale (almeno per me, è sempre
stato così). Certo, c’erano dei posti vuoti: ma per quanto
dolore provassi per quelle assenze, la gioia di averla lì a
preparare la tavola, qualche salsa e qualcos’altro era immensa.
La seguivo come un cagnolino, avessi avuto la coda sono certo
che mi avrebbe visto scodinzolare.
Passarono così quattro
anni: ogni volta che andavamo a ritirare l’esito degli esami era
un batticuore, stracciavo la busta che li conteneva e leggevo
quasi con avidità, nemmeno fosse stato un romanzo di Follet (il
mio preferito). Lei accanto a me, seduti sulla panchina che
c’era subito all’uscita dell’ufficio “consegna referti”. E ogni
volta il primo valore che andavamo a leggere era il marker:
quello era diventato il nostro chiodo fisso. E ogni volta era un
abbraccio.
Avevamo sentito alla
tv che c’era una specie di epidemia influenzale, che durava più
o meno una settimana e che colpiva soprattutto lo stomaco, con
nausea e vomito. A metà maggio circa, quell’influenza colpì
anche lei. Non durò molto, se ricordo bene solo quattro giorni:
ma fu molto virulenta e la lasciò per un certo periodo senza
forze. Non ne facemmo un dramma comunque: un’influenza può
capitare a chiunque…
Quando ormai sembrava
che avesse superato quella breve influenza, improvvisamente non
si sentì bene: ancora vomito. Telefonai al medico, il quale
prescrisse delle supposte antivomito (sono ancora nel cassetto
del comodino) e mi rassicurò: di certo era solo una ricaduta
dell’influenza, bastava darle quelle supposte e in breve
l’avrebbe superata.
Passò un giorno,
due…tre giorni…e il malessere perdurava: ma la cosa grave era
che ormai qualsiasi cosa mettesse nello stomaco, non resisteva
più di un quarto d’ora. Il venerdì pomeriggio il medico non
c’era: ormai allarmatissimo, perché non tratteneva più nemmeno
un cucchiaino d’acqua, chiamai la guardia medica. Ne chiamai ben
tre (!): una il venerdì sera, una il sabato e una la domenica.
Malgrado tutti i precedenti di cui lei metteva a conoscenza i
medici che la visitavano, tutti pensarono che non fosse altro
che una recidiva dell’influenza. Solo dopo nove giorni dal primo
episodio il suo medico di base si decise a farle visita…e
nemmeno lui capì nulla: lo stomaco era trattabile, era solo un
po’ gonfio, ma si trattava senz’altro di una recidiva
dell’influenza.
Poco prima che tutto
questo succedesse, si era sottoposta al solito controllo
semestrale: esami del sangue e TAC.
Era il 21 giugno,
quando in piena notte – all’ennesimo episodio di vomito –
chiamai il 118 e la feci ricoverare.
Finalmente il medico
del pronto soccorso intuì che non poteva essere – per così tanto
tempo – solo una recidiva dell’influenza: “dobbiamo metterle il
sondino” mi disse. “Ma non si può farle un’anestesia?”
chiesi…Scosse la testa e mi disse di uscire.
Venne portata al
quinto piano: ginecologia. Le avevano inserito il sondino nel
naso, quella specie di proboscide andava a pescare nello stomaco
ed era attaccato ad una macchina che, messa in funzione,
risucchiava tutti i liquidi gastrici. Al braccio sinistro una
flebo, per l’idratazione. Soffriva, lo stomaco si era gonfiato
ancora e le faceva male “se non si svuota in questo modo,
dovremo intervenire” mi dissero.
Il 24 giugno venne
portata in sala operatoria. Mancava solo un altro esame: uno
solo, per concludere quei cinque anni di osservazione. L’avrebbe
fatto a dicembre, invece….
Era una occlusione
intestinale: le recidiva tanto temuta si era verificata. Il
tumore le aveva colpito l’intestino, il ceppo era identico: CA
ovarico.
Aveva colpito un’ansa
dell’intestino, ed era talmente abbarbicato che non poterono
asportarlo. Le praticarono un by-pass.
Quell’anno, lo stesso
giorno della finale dei mondiali di calcio, io ero in ospedale
accanto al suo letto.
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