2011
Passò Natale, passò
Capodanno, passò l’Epifania: ero riuscito a fare in modo che
rimanesse ricoverata per tutto il periodo delle feste. Ma ora non
potevo più procrastinare. Mi misi ancora in contatto con la Vidas e
mi assicurarono che se fosse stata dimessa il lunedì successivo loro
sarebbero intervenuti immediatamente il giorno stesso. In quei
giorni, fra Natale e l’Epifania, le infermiere mi avevano fatto
vedere come si doveva cambiare una flebo, come si dovevano applicare
le sacche per l’alimentazione parenterale, come si doveva svuotare
il sacchetto di raccolta del sondino e come si doveva cambiare il
sacchetto di raccolta della fistola. Mi mettevo i guanti e provavo:
era indispensabile, perché tutte queste cose avrei dovuto farle io,
una volta a casa. Ogni volta il cuore accelerava all’impazzata: per
la paura di sbagliare, per la paura di farle male, o anche solo per
la paura di sporcare il letto quando dovevo manovrare con le
sacchette di raccolta del sondino e della fistola.
Il 3 gennaio Davide,
l’infermiere esperto della stomatologia – che veniva appositamente
nel reparto di ginecologia per occuparsi dei pazienti provvisti di
sacca per la fistola – si accorse che la sua fistola si stava
rimarginando. Ero stupito e chiesi spiegazioni: mi disse che non era
una novità. Accadeva infatti spesso che, così come s’erano
manifestate, le fistole si richiudessero su stesse, smettendo così
di spurgare. Sotto la sua guida asciugai la ferita, la disinfettai e
applicai la sacchetta di raccolta. Ormai avevo imparato bene, ma ero
ben felice di non dover più ripetere quell’operazione.
La sacchetta era formata da
due parti: una , provvista di cerotto adesivo, veniva posizionata a
diretto contatto con la pelle, esattamente in modo da lasciare un
buco in corrispondenza della lacerazione; sopra veniva posizionata
la sacchetta di raccolta vera e propria, che veniva fissata a quella
sottostante attraverso una ghiera. Si premevano insieme le due parti
e l’applicazione era completa. Tutte le volte cercavo di premere
pianissimo e tutte le volte “ti faccio male?” le chiedevo. Il
terrore di farle sentire dolore era per me insuperabile.
Ormai mancava poco per le
dimissioni dall’ospedale. Le infermiere furono gentilissime e mi
procurarono diverso materiale che sapevano mi sarebbe stato utile:
pannolini (lei li metteva sempre, perché aveva sempre paura di
bagnarsi, anche se questo non successe mai); sacche di raccolta di
scorta, complete di tubicino, che avrebbero dovuto essere utilizzate
ogni giorno per sostituire quella del giorno precedente (o anche più
volte al giorno, se vedevo che la sacca di raccolta era già piena);
una scatola di guanti sterili e due scatole di guanti normali (ogni
scatola contiene 100 guanti). Portai tutto a casa, pronto a dover
utilizzare tutto quel materiale.
Era il 10 gennaio quando
l’aiutai a salire sull’ambulanza che ci avrebbe accompagnato a casa.
*…*…*
Qualche sera prima del
rientro a casa, avevo incontrato la mia vicina di casa. Era
benvoluta da mia moglie, soprattutto per la discrezione che aveva
sempre dimostrato: spesso, negli anni precedenti, per non disturbare
il suo riposo e la sua sofferenza si era limitata a mandarle dei
messaggi, che la confortavano e la facevano comunque sentire vicina.
Mi chiese se avevo bisogno di qualcuno: sembrava quasi che sapesse a
quali difficoltà sarei andato incontro. E infatti lo sapeva bene:
suo padre aveva avuto la stessa malattia. Le dissi che sì, sarebbe
stato un grande aiuto se avesse potuto indicarmi un infermiere
professionale. Mi diede immediatamente un numero di telefono,
dicendomi che era quello dell’infermiere che aveva seguito suo
padre. Lo chiamai, gli descrissi la situazione e gli chiesi se
poteva procurarmi una piantana per le flebo. La sera stessa me
l’aveva già procurata. Forse può sembrare un po’ assurdo che, con
tutte le preoccupazioni che già mi attanagliavano il cuore e la
mente, io mi preoccupassi di una piantana per le flebo. Ma anche
quella era una grossa preoccupazione. In una casa normalmente certe
attrezzature ospedaliere non esistono: come potevo appendere le
sacche per l’alimentazione parenterale se non avevo nemmeno uno
straccio di piantana a disposizione?
Quando arrivò a casa, gli
infermieri dell’ambulanza la fecero immediatamente sdraiare sul
letto: appesero la sacca dell’alimentazione alla piantana che avevo
procurato, le cambiarono il cerotto sul naso, che portava per tenere
fermo il sondino, e se ne andarono. Lei mi accarezzò il viso e con
un filo di voce mi disse: “sei riuscito ad avere anche la piantana,
come hai fatto?” Sorrideva e capii che anche per lei quella era una
preoccupazione: ero felice di esser riuscito almeno a toglierle quel
pensiero.
Quel giorno stesso, verso le
16, si presentò a casa l’infermiera della Vidas, così come avevo
concordato per telefono: si chiamava Luisa, disse, e la visitò. Poi
mi disse di seguirla: la feci accomodare in soggiorno e lì mi spiegò
tutto quello che avrei dovuto fare. Disse che loro sarebbero
intervenuti due volte a settimana, disse che per qualsiasi evenienza
esisteva un numero per chiamare il medico di guardia della Vidas
stessa, mi consegnò una cartelletta rossa nella quale avrei dovuto
conservare tutta la documentazione che loro avrebbero consegnato
alla fine di ogni visita e infine mi fece vedere come avrei dovuto
agire per tutte le operazioni necessarie: come mettere i guanti
sterili, come disporre le sacche, come preparare la soluzione
fisiologica che sarebbe servita per pulire il condotto tra le sacche
di alimentazione e il port-a-cath …….in poche parole, ero diventato
io il suo infermiere. Quando
mi avvicinavo per controllare la sacca di raccolta e sostituirla,
lei mi guardava con uno sguardo di gratitudine: mi chiamava “il suo
infermiere preferito”.
*…*…*
La sorella più piccola, che
non essendosi mai sposata viveva con la mamma già 87enne, era
abbastanza pratica di assistenza, dovendo occuparsi spesso di
accudire appunto sua madre. Mi procurò alcuni teli, che avrebbero
potuto servire per evitare di sporcare il letto quando sostituivo le
sacche, e una padella.
Quest’ultima rimase qualche giorno inutilizzata, perché lei ogni
volta che aveva bisogno di andare in bagno si alzava. Con molta
circospezione, con una mano la reggevo per un braccio, mentre con
l’altra mano spingevo la piantana delle flebo. Ogni volta, prima di
scendere dal letto, mi preoccupavo di staccare la sacca di raccolta,
facendo attenzione a chiudere il condotto per evitare che il
materiale fuoriuscisse.
Era un’operazione semplice a
prima vista: ma si doveva fare molta attenzione. Per prima cosa si
doveva piegare il tubicino tra due dita, in modo che l’afflusso
venisse interrotto. Solo allora poteva essere staccato e doveva
essere richiuso con un tappo apposito. Sudavo, il tubicino mi
scivolava via dalle mani…”no, io l’infermiere non lo farà mai”
dicevo dentro di me.
Giovedì sera 13 gennaio:
aveva bisogno di andare in bagno, ma mi accorsi quasi subito che
c’era qualcosa che non andava. Era debolissima, molto più dei giorni
precedenti. “Ce la fai?....ce la fai?” le chiedevo, mentre con
grandissima fatica faceva un passo dopo l’altro. Mi fece cenno di sì
con la testa, ma giunti all’ingresso del bagno (che si trova a tre
metri dalla camera da letto…) mi guardò senza parlare: lentamente si
accasciò, scivolando fra le mie braccia, fino a sedersi sul
pavimento. Mi accoccolai davanti a lei per sostenerla, perché
oscillava e avevo paura che lasciandosi andare battesse la testa.
Non ce la faceva più a rialzarsi. Ero disperato, non sapevo cosa
fare. Mi posizionai alle sue spalle e le misi le mani sotto le
ascelle: piano piano, con un gradissimo sforzo, iniziai a
trascinarla sul pavimento per farla tornare a letto. Non mi curai
della flebo, la piantana aveva le rotelle e per fortuna non si
rovesciò; ma trascinare un corpo inerte, per quanto leggero come il
suo, non era una cosa facile: riuscii a raggiungere i piedi del
letto e lì – mi chiedo tuttora dove abbia trovato la forza – riuscii
a sollevarla e a sdraiarla. Le gambe erano penzoloni ancora fuori
dal letto, la testa giaceva all’incirca a metà. Mi misi sul letto
anch’io e riprendendola per le ascelle riuscii a fare l’ultimo
sforzo: la feci scivolare ancora fino a farle posare nuovamente la
testa sul cuscino. Rimisi a posto la piantana e le portai la
padella. Aveva la pressione massima a 70: da quella sera non volli
più che si alzasse.
Il giorno dopo l’infermiera
controllò la pressione e confermò che era a 70: per espletare quel
minimo di funzioni vitali era indispensabile che non si alzasse e
inoltre aveva bisogno di qualcuno che si occupasse almeno di un
minimo di igiene personale.
Sabato 15 gennaio si presentò
a casa un’igienista, che operava sempre per conto della Vidas.
Lorenza - questo il suo nome
- aiutata da mia cognata, riuscì a compiere tutte le operazioni
necessarie, compreso l’igiene intima. Volli assistere a quello che
faceva e quello che vidi fu un colpo allo stomaco. Per quanto
emaciata fosse, la camicia da notte nascondeva bene il suo stato
reale: quando la vidi nuda trasalii. Credo che non pesasse più di
trenta chili.
Da quel momento, per farle
fare la pipì, dovevo sollevarle io stesso le gambe e posizionare la
padella: lei da sola non ce la faceva più. La notte stavo vicino a
lei il più possibile, toccandole le gambe con le mie per farle
sentire la mia presenza: era gelata.
*…*…*
Tutti i giorni, dall’ospedale
di Melegnano, venivano consegnate le sacche per l’alimentazione
parenterale. Erano sacche particolari: la composizione infatti
doveva essere individuale, a seconda delle necessità di ogni singolo
paziente. Lei aveva un livello di glucosio più elevato del normale –
intanto avevo imparato anche a pungerle il dito con un apposito
apparecchietto per misurarle questo valore - e perciò le sacche
destinate a lei venivano corrette in laboratorio. Io le dovevo
conservare in frigorifero, in basso nel reparto di solito destinato
alla verdura, e dovevo estrarle circa tre ore prima
della somministrazione. A
quel punto, la prima cosa da fare era pulire il condotto
direttamente attaccato al port-a-cath, cioè dovevo iniettare una
soluzione fisiologica che dovevo preventivamente preparare. Avevo
imparato ad espellere l’aria dalla siringa: una delle operazioni più
importanti che, anche se a prima vista semplici, io non avevo mai
fatto prima. L’aria doveva fuoriuscire per evitare che, se
iniettata, avrebbe potuto provocare un embolo. Quindi sostituivo il
tubicino che collegava la sacca al condotto, dopo aver predisposto
la sacca stessa. Da questa infatti spuntavano due ingressi: dovevo
utilizzare quello più grosso, forarlo e attaccarvi un’estremità del
tubicino. L’altra estremità veniva attaccata al condotto. Il tutto
doveva avvenire dopo aver chiuso l’afflusso della sacca precedente,
che veniva poi ripristinato con la sacca nuova, regolando la
quantità tramite una valvola. Questa operazione avveniva tutti i
giorni alle 16 circa: la durata della somministrazione era regolata
sulle 24 ore, ininterrottamente.
Intanto il sondino
gastro-nasale faceva il suo dovere, almeno così sembrava. A volte
era necessario sostituire la sacca di raccolta anche più di una
volta al giorno, perché era piena. Ma una sera mi accorsi che il
livello era troppo basso: aveva tenuto la sacca fin dal mattino, non
era possibile che avesse spurgato così poco. Lei pareva sofferente.
Non mi persi d’animo e decisi di effettuare un’operazione che avevo
visto fare in ospedale. Riempii una grossa siringa – la chiamano
“schizzettone” – d’acqua tiepida e la iniettai lentamente, fin
quando lei mi rispose che sentiva che aveva raggiunto lo stomaco.
Poi, molto molto lentamente cominciai a sollevare lo stantuffo, per
risucchiare i succhi gastrici. Riempii la siringa completamente.
Qualche volta succedeva infatti che il sondino si muovesse sulle
pareti e non lavorasse come avrebbe dovuto: toglierlo e metterne uno
nuovo sarebbe stata una sofferenza troppo grande – tra l’altro
questo avrebbe potuto farlo solo un’infermiere professionale, non
certo io - perciò si optava per questo tipo di operazione che nella
maggior parte dei casi risultava più che sufficiente. Dopo circa
un’ora aveva ripreso il suo colorito.
Fino al giorno delle
dimissioni dall’ospedale, il suo nutrimento non era limitato solo
alle sacche di alimentazione: poteva anche assimilare semolino e
omogeneizzati: Dall’11 gennaio in poi solo le sacche. Lei ormai non
parlava più: io capivo quello che diceva solo dal suo sguardo o
raramente da qualche suo cenno del capo.
Ogni giorno, all’ora di
pranzo, dopo averle fatto fare la pipì – che qualche volta era
risultata abbondante, ma che diminuiva ogni giorno di più – le
dicevo “vado a prepararmi qualcosa, va bene?”. Se rispondeva di sì,
lo faceva solo con un cenno della testa e abbassando le palpebre.
Sabato 22 gennaio. Lorenza la
mattina era tornata per l’igiene personale. Lei era talmente debole
che l’igienista riuscì a praticare solo il necessario per l’igiene
intima. Quando finì, in cucina mi disse con un filo di fiato che
c’era già un inizio di necrosi. Mi posò una mano su una spalla,
quando vide una lacrima che non riuscii a trattenere.
All’ora di pranzo, come se
rifiutassi di accettare la situazione, le chiesi come al solito se
potevo andare a prepararmi qualcosa: non rispose. Il suo respiro era
rauco, affaticato. Lo stomaco si sollevava e si abbassava un po’ più
velocemente del solito. Misi sul fuoco la pentola piena d’acqua: mi
sarei cucinato due spaghetti in bianco, la cosa più veloce che mi
venne in mente in quel momento. Tutti i giorni facevo la spola fra
la cucina e la camera da letto, per sincerarmi di come stesse e di
come procedeva l’afflusso della sua alimentazione attraverso le
sacche: così feci anche quel giorno. Misi una dose di spaghetti in
un piatto, in attesa che l’acqua bollisse e andai da lei. Lo stomaco
non si sollevava: era fermo.
Mi avvicinai, la chiamai…mi
guardava, sì, mi guardava…ma non vedeva nulla: il suo respiro non
c’era più.
La chiamai, la chiamai tanto
finchè l’abbracciai: le baciai la fronte, il naso, le labbra…poi mi
arresi e con due dita cercai di chiuderle le palpebre. Il cellulare
era lì, sul comodino: lo presi e feci due numeri. “Se potete,
venite…” dissi a mio cognato. Mi sentii chiedere “è successo?”
Risposi “credo di sì”, singhiozzando. Quel “credo di sì” aveva un
solo significato: non volevo arrendermi all’evidenza. Poi chiamai
mio figlio “vieni a casa” e non aggiunsi altro.
Non so chi avvertì un nostro
amico, quello che aveva partecipato alla cena per il suo compleanno:
me lo vidi precipitarsi in camera e lì mi abbandonai sul suo petto
“non respira più!...non respira più!” gli gridai.
Tutto quello che ricordo sono
alcune telefonate che fece mio cognato e che io sentivo dalla
camera: all’infermiera della Vidas, alle Onoranze Funebri…poi a
tutti i parenti.
La prepararono gli addetti
delle Onoranze Funebri: era in camera, il giorno dopo ci fu un
afflusso di gente come raramente avevo visto in altre occasioni. Qui
dove abito siamo in 52 famiglie: credo di averne viste almeno
quaranta, forse di più. Il giorno dopo arrivarono tutti i parenti di
Modena, i suoi zii. Io non capivo nulla, era mia cognata ad
accogliere tutti. Poi, il 24 gennaio, ci furono i funerali. Prima
che la chiudessero, volli stare da solo con lei: credo che diedi
l’assenso perché procedessero solo dopo due ore.
C’erano tutti: io camminavo
con a fianco mio figlio e mia nuora che reggeva in braccio il mio
nipotino, subito dietro di me c’era mia suocera – sua madre – con
l’altra cognata, la più piccola, che la sospingeva su una sedia a
rotelle: poi tutti gli altri. Rividi tutti i miei compagni di
giochi: non li vedevo da anni e non so chi li abbia avvertiti.
Feci tutto quello che aveva
detto quel martedì di crisi in ospedale, ma che io sapevo già da
molto prima, fin da quando lei aveva voluto dirmi le sue volontà nel
2006, dopo la recidiva, durante una passeggiata nel parco
dell’ospedale.
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