2009-2010
Un giorno decisi di mettere a
posto i suoi documenti sanitari. Un’archiviazione metodica: analisi
con analisi, referti con referti, terapie con terapie. Tutto
rigorosamente suddiviso e ordinato in ordine cronologico. Può
sembrare un po’ maniacale, ma io sapevo che era un lavoro che si
doveva fare: in qualsiasi momento di necessità avremmo avuto a
disposizione i referti relativi al ricovero precedente più recente.
Mentre sfogliavo tutte quelle carte trovai un documento. Scritto da
lei stessa, era l’elenco di tutte le terapie alle quali si era
sottoposta:
-
2001 Carboplatino + taxolo
-
2002 Topotecan + ciclofosfamide + gemcitabina. Seguita da
reinfusione di cellule staminali
-
2006 Recidiva: Carboplatino + caelyx
-
2008 Cisplatino
-
2009 Taxolo
Chiunque leggesse questo
elenco credo non si capaciterebbe ed io non faccio eccezione: come
sia riuscita a sopportare tutto questo fa’ parte
dell’incomprensibile. Eppure…
Rilessi quell’elenco, parola
per parola, sapendo che l’aveva scritto lei, sapendo che aveva
trovato la forza di scriverlo lei….
Mi presi la testa fra le
mani, pensavo: come si vive, in attesa dell’ineluttabile? Come si
vive, sapendo che da un momento all’altro poteva sentire
quell’inconfondibile gorgoglio nella pancia, oppure quella
nausea…oppure quel senso di malessere, di gonfiore, dovuto
all’impossibilità di scaricarsi…come si vive?
Mi scoprii ansioso: in verità
lo sono sempre stato, ma quello era un periodo particolare. Le
scrutavo il viso senza che lei se ne accorgesse, alla ricerca di un
segnale, temendo quel segnale.
Quell’anno, il 2009, era un
anno speciale. Ogni persona raggiunge certi traguardi nella vita:
segnano tappe fondamentali della propria esistenza. Chi non conosce
il detto secondo cui arrivati agli “anta” l’età non cambia più?
Quell’anno per lei era una di queste tappe e voleva festeggiare
questo compleanno in modo speciale. Io sapevo il perché, in fondo lo
sapevamo tutti il perché: malgrado tutto, aveva raggiunto quello che
lei considerava un traguardo che solo otto anni prima non avrebbe
mai sperato di raggiungere. Disse chi voleva intorno a sé quel
giorno: tutti i parenti e i nostri due più cari amici. Quella sera
al ristorante eravamo in dieci: purtroppo dei parenti potevano
essere presenti solo i superstiti (io avevo perso i miei genitori
nel 2002 e nel 2003; lei aveva perso suo padre nel 1995) più i
nostri due amici. Fu una cena splendida, ma ancora più splendida era
lei. Erano passati ormai quattro mesi dalla fine dell’ultima terapia
e poteva permettersi di toccare qualche cibo che normalmente avrebbe
evitato. Ma quella sera no, non poteva rinunciare: era la sua festa.
Disse come voleva che ci sedessimo a tavola. Io accanto a lei,
accanto a me sulla mia destra nostro figlio e nostra nuora; di
fronte la mamma e una sorella, la più piccola; accanto a lei, alla
sua sinistra, l’altra sorella col marito. Ricevette tanti regali, ma
io posso dire che quella sera ero felice perché ne guardava
continuamente uno: il mio.
Eravamo invece un po’ stupiti
di nostra nuora: anche se era sempre stata piuttosto magra, sapevamo
che era una buona forchetta e non capivamo. Non toccò salumi ed
evitò i cibi più succulenti. Ma non ci preoccupammo più di tanto.
Stava arrivando Natale. Come
spesso succede quando uno dei due sposi ha i genitori che vivono
lontano, mio figlio e mia nuora avevano deciso di passare quella
festa una volta con noi, una volta con i genitori di lei. Quello era
l’anno in cui avrebbero trascorso quel giorno coi genitori di lei.
Come sempre, li avremmo accompagnati all’aeroporto. Eravamo già
d’accordo per il giorno e l’ora, quando ricevemmo una telefonata:
era mio figlio che ci diceva che quella sera (era la sera prima
della partenza) sarebbero passati a salutarci. Non capivamo: la sera
dopo li avremmo accompagnati
all’aeroporto, che bisogno
c’era che venissero anche il giorno prima, quando avevano tutto da
preparare?
Alcuni mesi prima,
chiacchierando solo tra noi – perché non si sarebbe mai sognata di
fare la minima pressione sui ragazzi - lei aveva espresso il suo
desiderio di avere un nipotino. Le dissi: “vedrai che arriverà entro
la fine dell’anno”.
Quando ricevemmo quella
telefonata, la guardai e confesso che mi veniva da ridere: “secondo
me, hanno una bella notizia da darci” le dissi sorridendo.
Avevo indovinato: stavamo per
diventare nonni!
Quella sera le vidi il volto
rigato da grossi lacrimoni, ma questa volta erano lacrimoni di
felicità.
Natale lo trascorremmo a casa
nostra, come avevamo fatto già diverse volte negli anni precedenti.
Lei preferiva non allontanarsi da casa: non si poteva mai sapere…
Decidemmo insieme il menù, mi
disse di prepararlo al computer e di stamparne una copia in più: ci
sarebbe servito in cucina come promemoria. Un Natale bello: si
chiacchierava, ci si diceva “ecco perché non aveva mangiato niente,
non poteva!”, riferendoci a nostra nuora che alla festa del suo
compleanno ci era parsa strana. Finalmente la vedevo distesa,
sorridente, entusiasta di quello che stava preparando. E
soprattutto: stava per diventare nonna!
Erano anni che non la vedevo
così, fin da prima che tutto iniziasse.
*…*…*
Avrete certamente ormai
compreso quanto subdola possa essere questa malattia: ciò che viene
diagnosticato oggi, potrebbe non essere più vero domani.
La nostra vita era ormai
diventata questa: passavamo i giorni, i mesi, in attesa del
controllo successivo e ogni volta che questi si avvicinavano l’ansia
ci sopraffaceva. Il periodo durante il quale poteva aspettare anche
sei mesi tra un controllo e l’altro era passato da un pezzo: dopo la
recidiva, gli esami e le visite dovevano essere fatti più o meno
ogni tre mesi. Era molto importante, lo sapevamo: serviva ad
intervenire il più rapidamente possibile in caso di qualcosa di
anomalo.
Il 2 gennaio 2010 si sentì
male. Aveva dei forti dolori allo stomaco che però non erano
continui. Una corsa al Pronto Soccorso del S.Raffaele, l’attesa
mentre lei lentamente si disidratava, poi la visita finalmente: ci
dissero che l’attesa era stata prolungata perché, visti i
precedenti, avevano immediatamente avvertito le dottoresse della
ginecologia, le quali però proprio in quel momento erano impegnate
con altre tre malate che erano state appena ricoverate.
Decisero di effettuare prima
un Pap-Test. Non era certo una novità, anzi anche questo era ormai
diventato un controllo di routine: serviva per valutare, assieme
agli altri esami, la situazione generale con riferimento alla sua
malattia. Il risultato fu negativo.
Si riprese: fu sufficiente il
Paracetamolo (in parole povere: tachipirina), ma si dovevano
effettuare il prima possibile i due soliti controlli: una TAC e una
PET. I due esami combinati ci diedero il responso temuto: “l’analisi
combinata delle immagini documenta malattia a livello epatico e
addominale”. Il marker tumorale era schizzato a 175.
Quando portammo tutto alle
dottoresse, queste decisero di effettuare prima di tutto un altro
controllo. Si erano accorte che c’era un esame che lei in tutti
questi anni non aveva mai fatto. Data l’alta probabilità che la
malattia aveva di diffondersi dall’intestino fino al fegato,
decisero di prescriverlo: era una colonscopia. Non vi spiego nel
dettaglio di cosa si tratta, anche perché il nome stesso è di facile
comprensione: vi basti sapere che è uno degli esami più fastidiosi
ai quali ci si possa sottoporre. La preparazione a questo esame è
davvero insopportabile: si devono bere litri (ma proprio litri, non
è un errore!) di una soluzione che costringa ad evacuare fino allo
stremo delle forze: in poche parole, la sonda (endoscopio) che viene
inserita e che all’estremità è provvista di una piccolissima
telecamera non deve trovare né ostacoli né opalescenze. Spesso,
finito questo esame, chi lo esegue deve essere riaccompagnato a casa
da qualcuno: la paura, l’ ansia, e il dolore sia pur lieve non
permettono di rimettersi immediatamente alla guida di un veicolo.
Mi disse che il professore
che aveva eseguito la colonscopia era davvero bravo: non soltanto
era riuscito a tranquillizzarla, ma aveva operato molto, molto
lentamente perché sentisse la sonda il meno possibile. Era il 2
febbraio: “Assenza di lesioni macroscopiche”.
La sua mano che stringeva la
mia, fin quasi a farmi male, a me sembra di sentirla ancora adesso.
Il 10 febbraio iniziò un
altro ciclo di chemioterapia.
*…*…*
10 febbraio; 3 marzo; 24
marzo; 14 aprile; 5 maggio; 25 maggio: queste furono le sedute, una
ogni tre settimane. Ogni volta con la prescrizione, finita la
seduta, di una serie di farmaci anti-vomito e
uno sciroppo che agevolasse
l’evacuazione. Il farmaco era il carboplatino: era lo stesso farmaco
che le venne somministrato la prima volta, nel 2001: avevano optato
per questo farmaco, visti gli ottimi
risultati che erano stati
ottenuti a quell’epoca. Ma questa volta da solo: non poteva più
sopportare la somministrazione di un doppio farmaco (nel 2001 al
carboplatino avevano aggiunto il taxolo).
Ogni mattina, prima di
sottoporsi a seduta, venivano fatti i prelievi del sangue e delle
urine: se solo un valore fondamentale - le piastrine, oppure il
calcio, oppure i globuli bianchi - risultava troppo basso perché
potesse sopportare la terapia, questa veniva rimandata di almeno
cinque giorni. Non avvenne: le sedute furono regolari e il 25 maggio
il marker tumorale era sceso a 8.
Anche tra una seduta e
l’altra gli esami dovevano essere ripetuti settimanalmente. Nel
pomeriggio andavo a ritirare gli esiti, che mi venivano consegnati
subito perché sapevano che dovevano essere immediatamente comunicati
per telefono alle dottoresse della ginecologia. Anche questo faceva
parte del monitoraggio costante, che avrebbe permesso l’intervento
immediato in caso di importanti anomalie.
Finiti i cicli, gli esami
vennero ancora ripetuti a cadenza settimanale per un mese circa. E
ogni volta solo in un secondo momento ci preoccupavamo di leggere i
valori generali: tenendoci per mano, quasi volessimo farci forza
l’un l’altro, andavamo immediatamente a controllare il valore del
marker.
Eravamo ormai a luglio
inoltrato. Decidemmo, come l’anno precedente, di fare le vacanze a
settembre, ancora una volta per consentirle di recuperare le forze.
Dedicammo la prima settimana di agosto all’imbiancatura della casa:
diceva che ne aveva bisogno e visto che avremmo trascorso tutto il
mese a casa era una buona occasione per dare una rinfrescata.
Intanto gli esami si erano
diradati: non più settimanali, ma ogni tre settimane.
Partimmo alla fine di agosto,
questa volta con destinazione Calabria. Eravamo soliti trascorrere
due settimane di vacanza e ci avevano consigliato un villaggio che
poi effettivamente si rivelò come uno dei più belli che avevamo
visitato fino allora. La spiaggia era sufficientemente ampia, si
potevano fare delle belle passeggiate e molto vicino c’era una
pineta: ci recavamo lì spesso, dato che lei doveva evitare di
prendere troppo sole, specialmente nelle ore più calde. Passammo
delle giornate davvero tranquille: naturalmente ci eravamo portati
tutto l’occorrente in caso di necessità, ma non ce ne fu bisogno.
La partenza era ormai vicina:
non si capisce mai perché quando si sta bene le giornate sembra che
volino.
Giovedì della seconda
settimana: ora di pranzo. Mi guardò con un’aria strana, una mano
sullo stomaco. Si sentiva strana, gonfia…preferì ordinare della
pasta in bianco. La cucina calabrese, notoriamente piuttosto
piccante e piena di spezie, probabilmente aveva fatto il suo
effetto: “ci deve essere stato un accumulo e questo ha provocato il
malessere” le dicevo, più per consolarla che altro, perché non ne
ero affatto convinto. A cena il malessere si ripetè: ci guardammo
senza sapere bene cosa fare. Saremmo tornati il sabato e quindi
decidemmo di aspettare il rientro normale. Quel giorno, sabato,
mentre venivamo portati all’aeroporto mi guardava scuotendo la
testa: “qualcosa si è mosso” mi ripeteva.
Arrivammo di notte, preparai
immediatamente il letto e la feci sdraiare. Il giorno dopo eravamo
invitati da mia nuora e avremmo rivisto il nostro nipotino. Forse fu
proprio la gioia di rivedere nostro nipote che le fece trascorrere
tranquillamente la domenica: fece solo attenzione a non esagerare
col cibo ed evitò quello che avrebbe potuto appesantirla troppo. La
sera solo una camomilla, poi subito a letto.
Lunedì: ancora quel
malessere, ancora quel pallore, ancora quella mano sullo stomaco…Le
preparai della pasta in bianco: ne toccò una forchettata e non ne
volle più. C’era solo una cosa da fare: andare al Pronto Soccorso.
*…*…*
Il chirurgo che la visitò era
un uomo alto, brizzolato, con una voce cavernosa: autorevole e nello
stesso tempo rassicurante. Lesse tutta la sua anamnesi remota, si
fece raccontare quali erano le sue sensazioni, poi decise di
soprassedere: le prescrisse del magnesio e la invitò a ritornare il
venerdì per un’ulteriore visita. A casa, corsi in farmacia: il
farmaco prescritto era il Mag 2 e me ne feci dare una scatola. Sono
bustine di una polvere bianca da sciogliere in poca acqua. Per due
giorni sembrò che lo stato generale migliorasse, si sentiva
leggermente meglio, anche se il gonfiore allo stomaco non era
passato.
Il venerdì tornammo: c’era un
altro chirurgo, una donna, che la visitò e alla fine ci guardò negli
occhi: “io in quelle condizioni non la faccio tornare a casa”, mi
disse e chiamò al telefono la ginecologia perché si preparassero per
il ricovero.
Quando venne accompagnata al
sesto piano del Padiglione C, ero accanto al suo lettino: le
sorrisi, tenendole la mano “adesso ci pensano loro…stai tranquilla”
dissi, alludendo alle dottoresse che lei già conosceva una per una e
di cui si fidava. Venne visitata e immediatamente chiamarono
un’infermiera, particolarmente pratica per certe situazioni. Vidi
arrivare in camera quello che in seguito noi avremmo definito “il
bombolone”: ancora una volta, l’ennesima volta, il sondino
naso-gastrico.
Il “bombolone” non è altro
che un macchinario ad aspirazione, basato sul concetto dei vasi
comunicanti. E’ composto di due grossi cilindri, uno pieno di
liquido, l’altro vuoto. Via via che il liquido scende nel cilindro
inferiore, aspira attraverso il sondino quello che si trova nello
stomaco e nell’intestino, fino a svuotarlo. Non sempre è efficace e
quando non basta non c’è altro rimedio che intervenire
chirurgicamente.
Bastò, per fortuna, e dopo
alcuni giorni potè essere dimessa. Era distrutta.
Quando fece la visita di
controllo, con in mano gli ultimi esami del sangue, non riuscivamo
nemmeno a parlarci. Il marker era salito a 333: quasi dieci volte il
limito massimo consentito.
Iniziò un altro ciclo di
chemioterapia. Solo nel 2001, all’inizio di tutto, fu costretta a
sottoporsi a due cicli in un anno: allora si trattava di ridurre la
massa il più possibile per affrontare un secondo intervento, questa
volta di intervento non se ne parlava nel modo più assoluto. Il male
era troppo esteso, il rischio troppo alto. Unico conforto era vedere
che, come nelle occasioni precedenti, il marker prima si era alzato
ulteriormente, poi lentamente si era abbassato: da 333 era andato a
476, poi a 516, poi 169 e 147. Quando finì il ciclo era sceso a 60:
a noi sembrava ancora troppo alto, ma le dottoresse ci dissero che
fino a 100 – nelle sue condizioni – rappresentava la normalità.
Era la fine di novembre e ci
apprestavamo a festeggiare un altro suo compleanno: ormai si era
rimessa, o così sembrava, quando proprio la vigilia della festa si
sentì male nuovamente. Era il 3 dicembre 2010: ancora Pronto
Soccorso, ancora sondino…quello che lei non riusciva a sopportare:
“fatemi tutte le chemio che volete, ma il sondino no….per piacere….”
supplicava le dottoresse. Ma non si poteva fare diversamente: la
prima cosa era comunque svuotarla, solo successivamente si sarebbe
potuto decidere il da farsi.
Iniziò un altro ciclo di
chemioterapia: Gemcitabina. Fece due applicazioni e alla fine della
seconda seduta la D.sa Pella – assistente della D.sa Mangili di cui
ho già parlato – dopo la visita mi prese per un braccio e mi fece
allontanare dalla camera: “è proprio tanto…questa volta è proprio
tanto…” mi disse, riferendosi all’estensione del male. Io non so
dire, non so scrivere quello che si prova quando, pur sapendo che la
situazione è grave, si rientra in camera sorridendo, cercando di non
farle capire nulla. Mi sentivo male, ma mi imponevo di resistere.
Certo, lei era consapevole che prima o poi la situazione non avrebbe
potuto risolversi facilmente, ma la speranza c’era sempre:
disilluderla era un delitto.
La camera dov’era ricoverata
era sufficientemente grande da contenere tre letti. Lei occupava il
primo, quello più vicino all’ingresso. L’idratazione attraverso le
flebo proseguiva normalmente, ma lei continuava ad accusare il
solito stato di malessere, accompagnato da febbre.
Lo stomaco presentava ancora
gonfiore, anche più accentuato, finchè una sera ci accorgemmo che
quel gonfiore aveva assunto una forma di cupola e premeva contro la
parete addominale. Chiamammo subito la D.sa di turno: era la D.sa
Rabaiotti, che ci comunicò che si era formata una fistola e che,
anche se non sempre succede, avrebbe potuto aprirsi. Io ero
spaventato, perché non capivo esattamente come questo sarebbe potuto
avvenire senza lacerare i tessuti: soprattutto temevo per il dolore
che avrebbe dovuto sopportare. Speravo solo che, visto che non
sempre succede, anche a lei venisse risparmiata questa ulteriore
sofferenza.
La mattina dopo arrivai in
ospedale abbastanza presto: mi dissero che era sotto la doccia,
aiutata da due infermiere. Sul pavimento c’era la sua camicia da
notte completamente inzuppata di materiale, oltre alle lenzuola e
alla coperta, anche questi completamente sporchi. La fistola si era
aperta.
Le applicarono il sacchetto
di raccolta: “non dire a nessuno che ce l’ho…” mi disse con un filo
di fiato. Aveva il terrore di essere guardata come un’appestata:
sensazione che purtroppo aveva già avuto quando portava la parrucca.
Ci sono persone infatti che evitano qualsiasi contatto con questo
tipo di ammalati: io e mio figlio cercavamo di consolarla dicendole
che i veri malati sono loro, non lei. Solo che “loro” erano malati
nella testa.
Mentre aspettavo nel
corridoio, durante la sua doccia, incrociai la D.sa Mangili che
stava parlando con un collega di un altro reparto. Mi avvicinai,
capì subito che volevo qualche notizia: “è grave…molto grave” mi
disse.
Dopo qualche giorno la
spostarono di camera, assegnandole una camera singola: dissero che
lì sarebbe stato meglio per tutti, anche per noi parenti che avremmo
potuto essere più liberi di andare e venire. Ma quell’improvviso
cambiamento per me aveva un solo significato: stavano preparandoci
al peggio.
Un giorno avvenne qualcosa
che mi fece capire quanto lei fosse consapevole di quello che stava
succedendo. Una sera, era un lunedì, vomitò nuovamente. Si sporcò il
pigiama, il lenzuolo, la coperta e lei vide di cosa si trattava. Non
era quello che purtroppo aveva già visto in tantissime altre
occasioni precedenti: questa volta era verde scuro. Lei lo vide e il
giorno dopo volle parlare con me, suo figlio, sua nuora e sua
sorella ad uno ad uno. Stava dettando le sue volontà.
Quella sera ognuno di noi si
appartò in un angolo dell’ospedale, per piangere come non era mai
successo prima.
Dopo quell’episodio di
vomito, decisero di utilizzare ancora una volta il sondino
naso-gastrico, sempre con la speranza che presto o tardi qualcosa
sarebbe successo. L’infermiera che glielo posizionò stette con lei
più di due ore: alla fine, quando rientrai in camera, mi disse di
andarla a cercare. Voleva che la ringraziassi perché era riuscita a
non farle sentire nulla. Da quel momento sembrò che qualcosa stesse
cambiando: diceva che malgrado l’enorme fastidio, cominciava a
sentirsi meglio. Per allievare quella sensazione di raschiamento in
gola, andavo a comprarle dei gelati: era l’unico sistema. Ma le
forze cominciavano a mancare: non poteva mangiare
normalmente, solo semolino e
omogeneizzati, gli stessi che si danno ai bambini. Per sostenerla
dovettero praticare due trasfusioni di sangue.
Tutti gli amici vennero a
farle visita, la rincuorarono, le stettero accanto: sia quelli che
avevano partecipato al suo compleanno precedente sia quelli coi
quali avevamo trascorso insieme le vacanze nel 2007. Era amata da
tutti: con quel suo carattere così dolce era impossibile non amarla.
Qualche tempo prima lei mi aveva confidato due desideri: poter
diventare nonna e potersi sentire chiamare nonna dal suo nipotino.
Una domenica confidai agli amici questi suoi desideri e non riuscii
a trattenermi: scoppiai a piangere come un bambino, perché se il
primo desiderio si era avverato non sapevo se sarebbe riuscita a
veder esaudito il secondo.
Poco prima di Natale chiesi
colloquio alla D.sa Mangili: mi ricevette la sera stessa. Le chiesi
come stavano andando le cose e lei mi disse che un’altra terapia non
ci sarebbe più stata: non poteva sopportarla. Avevo le lacrime agli
occhi quando mi disse che sarebbe stato molto meglio se fosse andata
a casa per poter passare le feste in famiglia. Non ci potevo
credere. E avevo paura: chi l’avrebbe mai assistita a casa? Io non
ero capace nemmeno di fare un’iniezione, figuriamoci se potevo
assisterla in una situazione come quella! Mi disse di non
preoccuparmi: avrebbero pensato loro ad attivare l’assistenza
domiciliare.
Venni messo in contatto con
la Vidas: l’associazione che, collegata con l’ospedale, se ne
sarebbe occupata. Quando seppi che quest’associazione non operava né
di sabato né di domenica – nel senso che non si sarebbe presa in
carico un paziente in quei giorni – feci tutto il possibile perché
non venisse dimessa a ridosso delle festività. Oltretutto il suo
medico curante era in procinto di partire per trascorrere altrove le
vacanze natalizie: non avrei trovato alcun appoggio.
Feci presente tutte queste
difficoltà e mi risposero che avrebbero aspettato fino a quando non
fossi stato pronto. In realtà ogni giorno sia le dottoresse sia
l’assistente sociale dell’ospedale mi chiedevano se lo fossi: mi
infastidiva questo comportamento, perché sembrava quasi che
volessero liberarsi di lei. Non lo concepivo.
Facevo la spola fra casa e
ospedale, sia per portarle i cambi necessari sia per comprarle
qualcosa da mangiare che l’ospedale non forniva oppure per
sostituire quello che forniva ma risultava immangiabile. Ogni sera
ero l’ultimo a salutarla: l’aiutavo a fare pipì, le sistemavo il
letto e il comodino, in modo che avesse sempre a portata di mano un
bicchiere d’acqua e il cellulare, poi un bacio e uscivo. La sera
della vigilia di Natale decisi di tornare in ospedale: volevo essere
il primo a darle il suo regalo. Lo aprì con le lacrime agli occhi e
poi volle abbracciarmi: ma piano, perché si doveva evitare di
schiacciare il sondino che, se spostato, le avrebbe fatto male.
Stetti con lei quasi due ore, poi la salutai nuovamente e tornai a
casa.
A Natale arrivarono tutti:
ognuno col proprio regalo. E lei fece vedere orgogliosamente alla
sorella quello che le avevo regalato io: glielo misi al dito e lei
lo baciò.
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