Il Dr. Crepaldi, il
chirurgo che l’aveva operata, non era un chirurgo oncologo.
Naturalmente era in grado di valutare e soprattutto di
riconoscere un tumore, ma ancora oggi io credo che se avessero
chiamato un oncologo – dato che il punto colpito era uno solo –
si sarebbe trovato il modo di resecare la parte di intestino
infetto, asportando quel che vi era da asportare. Quelle notti
sono state tra le più difficili della mia vita, perché mi
colpevolizzavo. Erano ormai quattro anni che gli esami andavano
bene, ero ormai convinto che qualsiasi cosa fosse non poteva
essere ancora un tumore: anche perché col secondo intervento del
2001 le era stato tolto tutto. Isterectomia completa. Perciò,
quando i “ragazzi” del 118 mi chiesero dove portarla, io risposi
“qui, a 500 metri”…Avrei dovuto invece chiedere che la
portassero al San Raffaele: forse, se avessi fatto così, le cose
sarebbero andate diversamente.
Passarono diversi
giorni, ancora sofferenza, ancora dolore… Ma non c’era soltanto
l’accusa che facevo a me stesso di averla portata lì, c’era
molto altro: c’era rabbia. Perché un concatenarsi di cose
così…possono solo provocare una rabbia dentro: nove giorni,
prima che il suo medico si decidesse a visitarla; tre guardie
mediche che sottovalutarono la disidratazione; un chirurgo che
fece solo quello che era in grado di fare, non essendo un
oncologo….cos’altro doveva succedere? Eppure, accadde
dell’altro.
Due o tre giorni dopo
l’intervento comparve una febbriciattola: erano poche linee di
febbre, che in un primo momento non preoccuparono nessuno. E’
normale che dopo un intervento chirurgico compaia qualche
alterazione di temperatura. Ma quando mi accorsi che non c’era
alcun miglioramento, né per quanto riguardava quella febbre, né
per il suo stato generale, chiesi un colloquio col primario
della divisione.
Il Prof. Erba, così si
chiamava, stava semplicemente aspettando di poter andare in
pensione dopo quarant’anni di “onorata carriera”. Cosa si prova
a sentirsi dire “è la febbre oncologica…siamo nelle mani di
Dio”….cosa si prova? Disperazione, direte voi….ed effettivamente
ero disperato. Chiamai il Dr. Bregni, gli spiegai la situazione
e lo supplicai di fare qualcosa perché potesse essere trasferita
al San Raffaele. Non ci fu nulla da fare: senza il consenso –
cioè le dimissioni – dalla struttura nella quale era ricoverata,
non era possibile fare alcun trasferimento. E voi capite che in
quelle condizioni, con la febbre e quant’altro, l’uscita era
soltanto una chimera.
Soltanto parecchi
giorni dopo l’intervento, si decisero a controllare la ferita.
Solo allora si accorsero della suppurazione, le dovettero
schiacciare letteralmente il bacino perché spurgasse tutto il
pus che aveva accumulato. Avete presente una tazza di
caffelatte? quelle belle grandi che si danno ai bambini prima di
andare a scuola? Ne riempirono una di pus.
E’ inaccettabile che
un primario abbia consentito una tale trascuratezza, è
inaccettabile che mi abbia parlato di febbre oncologica quando
invece si trattava di una ferita infetta…ma per me è ancora più
inaccettabile che un
uomo che dovrebbe avere come stella polare la scienza – proprio
per il mestiere che fa’ – abbia invocato Iddio: e qui mi fermo,
non voglio aggiungere altro.
Arrivò finalmente la
fine di quella degenza, tornammo a casa. Non posso né ho la
forza di descrivere il suo stato: dico solo una cosa. Le sue
gambe avevano ormai la dimensione delle gambe di certi bambini
africani che di certo vi sarà capitato di vedere in qualche
documentario o reportage. Aveva perso 17 Kg.
Con tutte le carte
relative a quella degenza ci recammo ancora dal Dr. Bregni.
Studiò tutto attentamente – ricordo che la visita durò più di
due ore (!) – dopodichè ci propose un colloquio con il Dr. Di
Palo, chirurgo oncologo suo amico. Bregni aveva in mente
un’eventuale secondo intervento, dopo la terapia (in pratica
come nel 2001), ma voleva sentire il parere del chirurgo.
Il Dr. Di Palo ci
piacque subito: non solo per la competenza, di cui peraltro non
dubitavamo, ma per la sua capacità decisionale. Disse che
essendo intervenuto un medico non oncologo, era stato giusto non
toccare nulla, e proponeva di eseguire una PET prima di prendere
qualsiasi altra decisione. Ma che cos’è la PET? e perché proprio
quell’esame?
PET è l’acronimo di
Tomografia ad emissione di positroni: non Vi annoio con
particolari tecnici – oggi su internet si possono avere tutte le
informazioni – vi dico solo che si tratta di medicina nucleare.
Quell’esame avrebbe consentito, meglio di qualunque altro esame,
di verificare l’esistenza o meno di eventuali metastasi.
Non ce n’erano. Ma come descritto nella cartella clinica, il
tumore aveva colpito un’ansa dell’intestino provocando
l’occlusione: toccarlo, avrebbe comportato un rischio altissimo.
Unica soluzione: tenerlo sotto controllo tramite la
chemioterapia.
E la trafila ricominciò.
La divisione di
ginecologia del San Raffaele è nota nell’ambiente per
l’altissimo livello di specializzazione degli oncologi. Due
dottoresse la guidano, circondate da altre dottoresse – anche
molto giovani – che le seguono con un entusiasmo difficile da
riscontrare in qualsiasi atro ambiente di lavoro. Le due
dottoresse sono la D.sa Mangili e la D.sa Rabaiotti. Fu
quest’ultima a riceverci: e fu lei, dopo aver visionato tutta
l’anamnesi precedente, che decise a quale tipo di chemioterapia
avrebbe dovuto sottoporsi. Questa volta si trattava di una
combinazione di Carboplatino e Caelix. La definì terapia del
freddo.
Anche questa volta avrebbero potuto comparire delle piaghe,
delle vesciche: soprattutto in mezzo alle dita delle mani e dei
piedi. Per evitare queste conseguenze e per favorire l’efficacia
della terapia, doveva tenere al freddo mani e piedi il più a
lungo possibile e doveva assolutamente evitare l’assunzione di
cibi caldi. Anzi: dovevano essere più freddi che si poteva.
Non so quanti
conoscano bene Milano: qui da metà ottobre è consentito
accendere il riscaldamento, perché più o meno quello è il
momento in cui il clima cambia davvero e la sera non si può
stare senza i caloriferi accesi. Lentamente, ogni giorno diventa
più freddo, e l’orario di erogazione del riscaldamento sale,
fino a raggiungere in breve tempo le 14 ore consentite dalla
legge.
Che c’entra, direte
voi….Ve lo dico subito. Immaginate il freddo intenso, la nebbia
prima, poi la neve, il ghiaccio sulle macchine, sulle
strade….ecco: lei doveva stare con i panetti del frizer prima
tra le mani, poi sotto i piedi, per almeno un paio d’ore di
seguito: per scongiurare il formarsi di quelle piaghe. Qui
d’inverno si mangia spesso, specialmente la sera, una minestra
calda fumante: ti rinfranca, se ne sente il bisogno. Lei non
aveva nemmeno la forza di sollevare una pentola piena d’acqua,
quindi la preparavo io stesso…solo che poi dovevo mettere le
pentola in una bacinella, per raffreddarla sotto l’acqua
corrente; nulla doveva essere non dico caldo: nemmeno tiepido.
E’ difficile
descrivere quei mesi, forse me ne manca il coraggio, forse è il
rigetto della mente a ricordarli…
Arrivò Natale, poi
gennaio, e infine l’ultimo ciclo di terapia: il sesto.
Questa volta i
controlli non sarebbero più stati ogni sei mesi: esami del
sangue molto più ravvicinati e ogni tre mesi una PET.
Non stava succedendo
più nulla, lei a poco a poco riprese peso: non tutto quello che
aveva perduto, ma in buona misura. Il batticuore, ogni volta che
controllavamo l’esito degli esami, non mancava mai: e la
felicità, ogni volta che leggevamo che il marker era soltanto a
3 o 4, non ve la posso descrivere.
Avevo tuttavia in me
la consapevolezza che “quella cosa” c’era ancora, non era stata
asportata, ma era semplicemente silente. Con quella
consapevolezza, o forse per scacciarla dalla mente, venivo qui
con voi. Non so giocare – l’ho detto tante volte – però ci ho
messo l’anima in quello che facevo: scrivevo le mie stupidate e
tentavo di non pensarci, di dimenticare.
La sera che, al mare
in vacanza, mi vide avvicinarmi al musicista del villaggio in
cui stavamo passando le vacanze, lessi nei suoi occhi tutta la
sua felicità: stava bene, e pareva non aspettare altro che
ritornassi a cantare. Avevano organizzato una specie di Festival
degli ospiti – non è di certo una novità, chissà quante volte
l’avrete visto – e così partecipai. Ma non era un “dilettanti
allo sbaraglio”: lì c’era gente che cantava davvero, compreso
due ragazze che studiavano canto. Bè, non so se abbia influito
l’atmosfera – in vacanza tutto sembra più bello – o se abbia
influito la voglia di allontanare, vorrei quasi dire cancellare
tutto quello che avevamo passato…sta di fatto che vinsi. La
canzone era “L’emozione non ha voce” di Celentano.
Quando tornammo a casa
era riposata, abbronzata, una cera che non vedevo più da almeno
sei anni.
Ormai stava bene, e ad
agosto ripartimmo: destinazione Palermo, a conoscere i genitori
della ragazza che tra un mese diventerà mia nuora.
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