Una storia vera

 

Prima parte

 

 

 

L’ospedale dove era ricoverata si trova a circa cinquecento metri da casa, o poco più. Non era attrezzato per le terapia cui avrebbe dovuto sottoporsi, però era collegato ad un altro ospedale di una cittadina vicina che aveva un settore dedicato. Tra medici – specialmente oncologi – si conoscono, e fu così che ci venne indicata quella struttura dove, una volta dimessa, avrebbe potuto cominciare.

Penso che molti di voi abbiano visitato almeno una volta un ospedale: e avrete certamente visto la sofferenza. Ma il settore dedicato ai pazienti malati di tumore è qualcosa di speciale: un andirivieni di persone, quasi sempre accompagnate da un familiare, che si sottopongono ad una terapia talmente sfibrante che poi, nella maggior parte dei casi, non si reggono in piedi e devono essere riaccompagnate a casa. Mi stupiva un signore che invece si recava lì in bicicletta, si sottoponeva alla terapia, quindi inforcava nuovamente la bicicletta e si recava al lavoro. “Ma come è possibile che ce la faccia?” mi chiedevo….Qualche mese dopo seppi che non ce l’aveva fatta: sapeva che sarebbe andata così, ma rifiutava la malattia e quello era il suo modo di reagire. Voleva farsi beffa di quel male, ma questo non lo salvò.

Tuttavia cercai di capirne qualcosa e ottenni un colloquio col professore che la stava seguendo. Forse qualcuno di voi già ne sa qualcosa, anche se mi auguro proprio che non sia così. La terapia consiste nella somministrazione in vena di un farmaco base: il carboplatino, di solito accompagnato da un altro farmaco, spesso si tratta di taxolo. Questi due farmaci nell’ambiente vengono definiti farmaci killer, ma anche farmaci ciechi. Nel senso che sono efficacissimi nel distruggere le cellule ed inibirne la proliferazione, ma…..hanno un gravissimo difetto: non sanno distinguere quelle malate da quelle sane. Chi è costretto a sottoporsi alla chemioterapia (utile purtroppo solo per certi tipi di tumore, non per altri) sa perfettamente che il risultato esiste, è efficace: ma ad ogni ciclo la sofferenza è inaudita, non perché si avverta dolore – il dolore, quando c’è, è provocato dal tumore, non dal farmaco che lo combatte - ma perché ci si sente completamente svuotati di qualsiasi energia, compreso la forza di portare un cucchiaio alla bocca.

L’obiettivo era dunque quello di ridurre la dimensione del tumore al punto da poter essere rioperata. La terapia durò cinque mesi: cinque mesi pazzeschi, in cui ogni giorno era una sorpresa. Le unghie si spezzavano da sole, la pelle si squamava, i capelli…..non c’erano più.

In viale Monza c’è un negozio dove si possono trovare abiti di teatro…e anche parrucche. Ci recammo lì, e riuscimmo ad averne una che somigliava incredibilmente alla sua solita pettinatura. Ma non crediate che possa essere un sollievo…per una donna poi, la perdita dei capelli è vissuta come un dramma intimo, un dramma che solo un’altra donna può capire. Per di più eravamo ormai in estate, e chi conosce Milano sa bene quale grado di umidità si raggiunge in questa città: quel “catafalco” sulla testa non faceva che aumentare la sofferenza.

Quando la terapia finì – sei cicli, sempre più pesanti – eravamo ormai a dicembre: un altro ricovero in un altro ospedale. Un’altra attesa davanti a quella solita porta – le porte delle sale operatorie sembrano tutte uguali in qualsiasi ospedale – altre preghiere….Poi l’uscita dei chirurghi, fiduciosi: “abbiamo asportato tutto, l’intervento è riuscito”. Con queste poche parole sentii rinascere la speranza; passarono altre due ore e la doccia gelata che mi colpì fu un colpo al cuore inaudito. Alla fine di ogni intervento viene eseguita una procedura che i chirurghi definiscono “risciacquo”. Si tratta in pratica di una verifica – non chiedetemi altri particolari, non li conosco – ma fu in questo modo che quegli stessi chirurghi scoprirono che esistevano ancora delle cellule malate: le definirono “cellule impazzite”.


Love